Il diritto di contare, memoir

Prologo
«Mrs Land faceva la calcolatrice al Langley» buttò lì mio padre svoltando a destra all'uscita dal posteggio della nostra chiesa, la First Baptist Church di Hampton, Virginia.
Io e mio marito eravamo andati a trovare i miei genitori appena dopo il Natale del 2010 e ci stavamo godendo alcuni giorni di pausa dai ritmi frenetici della nostra vita in Messico. I miei ci portavano a zonzo sulla ventennale monovolume verde, papà alla guida, mamma sul sedile del passeggero, Aran e io assicurati al sedile posteriore dalle cinture come due bravi fratellini. Papà, chiacchierone come sempre, ci regalava una radiocronaca che passava da aggiornamenti su ogni amico e vicino in cui ci imbattevamo al bollettino meteorologico a complessi discorsi di fisica. Era un sessantaseienne dottorando alla Hampton University e stava ultimando la sua ricerca. Si divertiva molto a scarrozzare per la Virginia mio marito, nato e cresciuto nel Maine, cogliendo nel frattempo l'occasione per rinsaldare i miei legami con la vita e la storia del posto.
Quando non eravamo a spasso, trascorrevo i pomeriggi al cinema del quartiere con mamma, mentre Aran andava con papà e i suoi amici alle partite di football della Norfolk State University. Ci rimpinzavamo di sandwich al pesce fritto nei bar intorno a Buckroe Beach, curiosavamo tra le collezioni del museo dei nativi americani alla Hampton University e passavamo al setaccio i negozi d'antiquariato.
Da diciottenne sbarbatella impaziente di andare al college, avevo visto la mia città natale come un mero trampolino di lancio per una vita in località più mondane, un luogo da cui allontanarmi quanto prima. Ma neppure anni e chilometri di distanza sarebbero riusciti a indebolire la presa di Hampton sulla mia identità, e più esploravo territori e persone lontani da casa, più il mio status di "figlia del posto" acquisiva significato.

Margot Lee Shetterly, Il diritto di contare (HarperCollins Italia, 2017 - memoir, pagine 381)